Welfare negli studi professionali? Certo che si!

Si sente sempre abbinare il welfare aziendale alle realtà aziendali, ma si parla poco della possibilità di fare welfare aziendale anche negli studi professionali, forse per scarsa conoscenza della materia o perché lo si vede come qualcosa di difficile attuazione, ma non è affatto così.

Anche i dipendenti degli studi professionali possono tranquillamente beneficiare dei numerosi servizi che il welfare aziendale mette a disposizione dei lavoratori, a maggior ragione considerando il fatto che la maggior parte della popolazione dipendente degli studi professionali è donna e di età inferiore ai 40 anni, quindi è chiaro comprendere quanto un’azione mirata proprio al migliorare l’equilibrio vita lavoro possa portare grandi benefici sia allo studio, che al lavoratore. Ma non solo, gli studi, esattamente come le aziende, possono puntare ad offrire anche servizi che vanno ad influire sul benessere fisico e mentale dei dipendenti (si pensi a corsi di attività fisica o un appoggio psicologico), possono offrire loro servizi di sanità integrativa, corsi di formazione e tanto altro ancora.

E le partite iva? Per le partite Iva purtroppo le soluzioni sono ancora molto limitate, questo perché effettivamente la normativa sul welfare aziendale fa riferimento solo ai lavoratori dipendenti o assimilati (includendo quindi, per esempio, gli stagisti), ma esclude i lavoratori autonomi. Però si stanno iniziando a diffondere delle soluzioni alternative, come per esempio quella di poter raggiungere lo stesso risultato utilizzando la norma sulle spese di rappresentanza anziché la normativa del welfare “in senso stretto”. Tale norma, parliamo dell’articolo 108, comma 2 Tuir, stabilisce che le spese di rappresentanza siano interamente deducibili dal reddito di impresa nel caso in cui un regalo non superi un valore di 50€ oppure quando l’ammontare totale della spesa non ecceda una soglia che è proporzionata ai ricavi dell’azienda, nello specifico:

• 1,5% dei ricavi e altri proventi fino a €10 milioni;

• 0,6% dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente €10 milioni fino a €50 milioni;

• 0,4 % dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente i €50 milioni.

Questi “escamotage” sono sintomo di un importante cambio culturale nel mondo del lavoro e del reale bisogno mettere al centro il benessere di tutti i lavoratori e ci si auspica presto che il legislatore intervenga ad estendere le misure del welfare aziendale anche ai liberi professionisti ed a tutti i lavoratori atipici.

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Ernesto De Petra

Fondatore di Farwel

Consulente specializzato nell’ambito del Welfare Aziendale ad Personam

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A presto,

Piano welfare: che succede al credito residuo?

Una domanda che mi fanno molto spesso è: “ma se i miei dipendenti non spendono tutto il loro credito welfare, che succede al residuo?”

La domanda è più che legittima e nasce dal fatto che i piani welfare hanno una durata annuale e, di conseguenza, il budget spendibile da ogni dipendente in beni e servizi ha una data di scadenza. Che fare quindi?

L’agenzia delle entrate ha dato proprio pochi giorni fa una parziale risposta a questo quesito, dando conferma ad una prima opzione interessante: il credito residuo del welfare può essere cumulato con quello dell’anno successivo. Nella risposta n. 311 del 30/04/21 infatti l’agenzia dice esplicitamente che “si ritiene che il lavoratore possa cumulare tale credito con quanto maturato nel secondo anno, vale a dire nel limite temporale di validità del piano, e a condizione che tali somme non siano in ogni caso convertibili in denaro.”

Questa possibilità è molto vantaggiosa per il dipendente, il quale non solo non perde la somma che gli era stata messa a disposizione, ma potendo accumularlo con quello dell’anno successivo ha la possibilità di utilizzarlo per acquistare un servizio o un bene di valore superiore.

Quali sono le altre opzioni?

  • Il credito viene azzerato qualora non utilizzato entro il termine di scadenza riportato sul piano di welfare aziendale e il dipendente perde quindi la possibilità di utilizzarlo per accedere ai servizi;
  • Il credito residuo viene destinatoa una forma specifica di welfare (es un fondo di previdenza complementare)
  • I residui dei singoli dipendenti possono essere riutilizzati per generiche misure di welfare collettivo in aiuto al personale (magari quello più in difficoltà)  

È bene specificare che in ogni caso, qualsiasi sia la soluzione che si preferisce attuare per i crediti welfare residui, questa dovrà sempre essere specificatamente indicata all’interno del regolamento aziendale che viene fatto con il piano welfare.

Un discorso a parte va fatto per l’ipotesi di monetizzazione. L’agenzia delle entrate vieta tassativamente la monetizzazione dei residui derivanti dal welfare on top, pratica che però è volendo prevista per quanto riguarda i crediti welfare che derivano dalla conversione di un premio di risultato. In questo caso però è bene precisare che qualora si desiderasse convertire in denaro un residuo di welfare, a questo verrà applicata un’imposta sostitutiva del 10%, il che significa che questa soluzione non sarà conveniente né per il dipendente, che si troverà un bonus di minor valore, né per l’azienda (ricordo che il welfare aziendale, a differenza del premio di risultato, non è sottoposto a tassazione alcuna).

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Ernesto De Petra

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A presto,