Lo psicologo nel welfare aziendale? Ecco perché è un’ottima idea!

Per lavorare bene bisogna avere la mente lucida e sgombra, questo lo sappiamo tutti.

Oggi voglio commentare con voi una notizia molto attuale riguardante un aspetto importante per la vita di ciascuno di noi e che spesso viene trascurato, vale a dire la salute mentale. Del resto, quando parliamo di salute abbiamo sempre la tendenza a pensare alla semplice cura dalle malattie ma, come dichiara la Costituzione dell’OMS, “salute è uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale”

Veniamo allo studio, che in tutta onestà mi ha anche un po’ sorpreso per i risultati dimostrati: secondo l’Osservatorio Reale Mutua sul welfare ben il 56% degli italiani ritiene che potrebbe essere utile rivolgersi ad uno psicologo o psicoterapeuta per migliorare la propria salute mentale ed in particolare gestire meglio ansie e stress. Nel campione esaminato la percentuale sale nelle donne (64%) e negli under 30 (65%).

Addentrandosi nelle motivazioni emerge che il 35% degli intervistati dichiara problemi nella gestione dell’ansia, l’11% vorrebbe modificare lati negativi del proprio carattere, un altro 11% vorrebbe migliorare delle dinamiche legate all’ambiente lavorativo ed un 7% vorrebbe sentirsi in grado di poter affrontare meglio problemi legati alla salute della famiglia.

La percentuale di persone che sentono il bisogno di confrontarsi con uno specialista del benessere mentale è veramente alta e sicuramente il dato è aumentato successivamente alla pandemia che stiamo ancora cercando di superare. Già tempo fa ne parlai in un post, quando incentivai le imprese a ragionare appunto sull’importanza di offrire un supporto anche psicologico ai dipendenti nel periodo più drammatico della pandemia, vale a dire durante e subito dopo il lockdown.

 A distanza di tempo è evidente quanto tale necessità fosse realistica e dovuta a più ragioni: l’improvviso distacco dal proprio ambiente di lavoro, la costrizione in casa, il bisogno di adattarsi molto in fretta ad una nuova realtà, la separazione dai colleghi e da tutto ciò che riguardava il lato sociale del proprio lavoro, la stessa paura per la malattia e l’incognita sul proprio futuro sono tutti fattori che per forza di cose hanno colpito, chi più chi meno, la stabilità mentale di milioni di lavoratori italiani.

Proseguendo nell’indagine risulta inoltre che il 31% degli intervistati vorrebbe che fosse per l’appunto la propria azienda a fornire un supporto psicologico sotto forma di welfare aziendale e questo è un dato che a noi esperti del settore interessa particolarmente, perché non solo ci mostra un bisogno che dobbiamo essere pronti a soddisfare adeguatamente già oggi, ma anche un trend probabilmente destinato a salire dal momento che i giovani, più liberi da pregiudizi e obsoleti retaggi culturali, mostrano meno imbarazzo rispetto alle generazioni precedenti ad affrontare queste tematiche e chiedere aiuto.

A tal proposito, la spinta allo smart working ed a una più generale diffusione della tecnologia suggerisce inoltre l’importanza di dover offrire oggi un servizio sia dal vivo che da remoto in video seduta, questo non solo per una questione di comodità, ma anche per mettere maggiormente a proprio agio le persone che, restando all’interno del proprio ambiente domestico, riusciranno ad aprirsi in maniera ancora più spontanea con il terapista.

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Ernesto De Petra

Fondatore di Farwel

Consulente specializzato nell’ambito del Welfare Aziendale ad Personam

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A presto,

FRINGE BENEFIT E FLEXIBLE BENEFIT: QUAL’E’ LA DIFFERENZA?

Tutti ne parlano e tutti li desiderano, ma molti non hanno capito le differenze tra i due: stiamo parlando dei flexible benefit e dei fringe benefit.

Te lo stai domandando anche tu? Perfetto, sono qui apposta per spiegartelo!

Iniziamo a spiegare cos’hanno in comune: entrambi nascono come servizi che il datore di lavoro offre ai dipendenti al fine di migliorare il loro benessere, sia in ambito lavorativo, che in ambito privato. I vantaggi per i quali vale la pena per un’azienda investire in tali benefit sono parecchi:

  • aumento della produttività dei dipendenti;
  • riduzione del turnover;
  • attrazione di nuovi talenti;
  • agevolazioni ed esenzioni fiscali;
  • minor assenteismo;
  • miglior clima lavorativo;
  • aumento brand reputation.

1. Cosa sono i fringe benefit?

La legge italiana definisce i fringe benefit come “compensi in natura”, essi non possono essere pertanto sotto forma di denaro ma soltanto sotto forma di beni e servizi e concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente quando il loro valore supera l’importo di 258,23€ nel periodo d’imposta. È bene precisare che qualora la cifra superasse tale limite, l’intero importo diventerebbe reddito imponibile tassato in busta paga, e non soltanto la somma eccedente.

 A tal proposito comunichiamo che nell’ultimo Decreto Sostegni lo Stato ha deciso di raddoppiare tale soglia esente da tassazione per tutto il 2021, portandola ad un massimo di 516,46€ (com’era stato fatto già l’anno scorso per dare sostegno ai dipendenti durante la pandemia). Il motivo per cui lo Stato ha optato ancora per questa via è duplice: da un lato aiutare i lavoratori, dando loro una pratica opportunità per sfruttare i benefici del welfare aziendale in un periodo difficile, l’altro per incentivare la spinta ai consumi in un anno in cui i più stanno tenendo la cinghia tirata.

Quali sono i fringe benefit più comuni? L’auto aziendale ad uso promiscuo, lo smartphone o tablet, i buoni pasto, i buoni carburanti, gli immobili in locazione o comodato d’uso gratuito, le gift card (es Amazon) e molti altri ancora.

Questi benefits vengono solitamente disciplinati nel contratto individuale che l’azienda stipula con il lavoratore e la loro tassazione varia a seconda della tipologia di benefit.

Per fare un esempio concreto ho scelto il caso delle auto aziendali ad uso promiscuo, essendo un benefit che ha fatto molto parlare di sé nell’ultimo anno, con l’introduzione nella legge di bilancio 2020 (L. 27 dicembre 2019, n. 160), all’art. 1, comma 632, di nuove regole antinquinamento, volte a incentivare l’acquisto di veicoli eco friendly.

Come funziona nello specifico?

Per quanto riguarda le auto immatricolate prima del gennaio 2020 e con contratto sottoscritto dall’azienda entro luglio 2020 vale ancora la vecchia normativa, con una tassazione pari al 30% del costo chilometrico in base alle tabelle ACI, indistintamente dal livello di emissioni di CO2 del mezzo.

Per quanto riguarda invece i nuovi mezzi aziendali acquisiti in data successiva al luglio 2020, viene introdotto il calcolo delle emissioni di anidride carbonica (CO2) ai fini della tassazione, con l’obiettivo di penalizzare i veicoli maggiormente inquinanti e, a partire dal gennaio 2021, tali percentuali sono state ulteriormente inasprite.

Gli scaglioni di tassazione sono attualmente i seguenti:

25% per i veicoli con valori di emissione di CO2 fino a 60g/km;

50% per i veicoli con valori di emissione di CO2 superiori a 160g/km ma non a 190g/km;

60% per i veicoli con valori di emissione di CO2 superiore a 190g/km.

2. Cosa sono i flexible benefit?

I flexible benefit sono considerati una forma di retribuzione complementare allo stipendio del lavoratore. Questi beni e servizi messi a disposizione dall’azienda per i dipendenti sono definiti “flessibili” perché adattabili alle esigenze di ciascun lavoratore.

L’azienda mette a disposizione un paniere di servizi ed ogni singolo dipendente viene dotato di un budget da poter spendere in ciò che rispecchia di più le sue esigenze, componendo così la propria scelta personalizzata.

Questi benefici nascono con l’intento di riuscire a conciliare al meglio l’equilibrio vita-lavoro dei dipendenti e diffondere benessere all’interno delle aziende. A differenza dei Fringe benefit, i flexible benefit non concorrono a formare il reddito imponibile e sono pertanto esenti da tassazione, eccezion fatta per i voucher (per i quali sussiste una soglia di esenzione fino ad euro 258,23), per la previdenza complementare (limite di esenzione pari ad Euro 5.164), e per le casse sanitarie (limite di esenzione pari ad Euro 3.615). Questo porta un vantaggio in più sia all’azienda che al dipendente: maggior potere d’acquisto per i dipendenti, mentre l’impresa non dovrà corrispondere contributi previdenziali su quella porzione di reddito.

Essendo i flexible benefit una retribuzione complementare al compenso ordinario, non possono essere offerti ad un solo lavoratore o ad un numero ristretto come i fringe benefit, ma devono essere erogati in egual maniera o all’intera comunità di lavoratori o suddividendoli in categorie omogenee.

I flexible benefit, di conseguenza, non vengono stabiliti nel contratto individuale con il singolo lavoratore, ma vengono solitamente regolamentati tramite i contratti collettivi nazionali, le contrattazioni sindacali o inseriti nel regolamento aziendale.

Per quanto riguarda la scelta, la lista è davvero ampia, l’importante è saper individuare quali sono i benefit più adatti alla propria comunità lavorativa e proporre un paniere dove tutti possano effettivamente trovare ciò di cui hanno realmente bisogno.

Alcuni esempi tra i benefit più utilizzati?

  • Abbonamenti a mezzi di trasporto
  • Voucher e buoni acquisto, come buoni pasto o buoni carburante
  • Assistenza ai famigliari anziani
  • Assistenza ai figli
  • Rimborsi alle spese scolastiche dei figli, asili nido, campus estivi
  • Polizze assicurative
  • Abbonamenti di qualsiasi tipo, dalla palestra al cinema
  • Viaggi
  • Mutue sanitarie

Essendo sul tema riporto anche una notizia di pochissimi giorni fa: L’Agenzia delle Entrate, nella RISOLUZIONE n.37/E del 27.05.21 ha dato l’OK al rimborso tramite welfare aziendale delle spese per acquisto di pc e tablet per i figli dei dipendenti in DAD, purché forniti di documentazione rilasciata dall’Istituto scolastico o dall’Università che attesti l’avvenuta didattica a distanza.

Si ricorda, infatti, che i datori di lavoro possono decidere di finanziare l’istruzione dei figli dei dipendenti in vari modi sfruttando il welfare aziendale e, avendo il covid introdotto questa modalità forzata di studio da casa, computer e laptop si sono resi strumenti necessari all’istruzione e quindi l’Agenzia delle Entrate “ritiene che il rimborso delle spese sostenute dal dipendente per il loro acquisto e successivamente rimborsate dal datore di lavoro non genera reddito di lavoro dipendente ai sensi dell’articolo 51, comma 2, lettera f-bis), del Tuir”.

Un altro vantaggio dei flexible benefit è la possibilità di attingervi convertendo, in tutto o in parte, il premio di risultato: in questo caso il dipendente, anziché ricevere in busta paga la spettante cifra tassata al 10%, potrà usufruire della cifra intera esentasse da spendere in beni e servizi di welfare aziendale, il che significa aumentare il proprio potere d’acquisto.

Concludendo, come avrai capito le possibilità sono davvero tante e i benefici altrettanti, il consiglio è sempre quello di fare una scelta mirata sui reali bisogni della tua popolazione lavorativa.

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A presto,

Smart working o telelavoro?C’è una bella differenza!

Smart working è stato il termine più usato nel mondo del lavoro nell’ultimo anno, anzi oserei dire il più ABUSATO, in quanto tutti l’hanno utilizzato per descrivere il forzato lavoro da casa durante il lockdown, quando in verità lo smart working è una pratica diversa e quello che abbiamo sperimentato nel corso della pandemia si avvicina molto più ad una forma di telelavoro di massa che allo smart working vero e proprio, seppur entrambe queste forme abbiano alcune caratteristiche comuni…

Quindi facciamo un attimo di chiarezza, cos’è lo smart working? cos’è il telelavoro e quali sono le differenze tra queste due modalità lavorative?

Partiamo dal telelavoro: dicasi telelavoro quella modalità lavorativa dove il lavoratore ha una postazione fissa che però si trova in un luogo diverso da quello dell’azienda e inoltre deve rispettare gli orari di lavoro stabiliti da contratto con l’azienda stessa. Per quanto riguarda gli strumenti tecnologici necessari per svolgere l’attività lavorativa e rimanere connessi con l’amministrazione, nel telelavoro sarà l’azienda a fornire tutto il necessario al telelavoro, stesso discorso per quanto riguarda la messa sicurezza del luogo di lavoro.

Orari rigidi e luoghi ben precisi quindi. Il telelavoro è stato studiato comunque, come lo smartworking, con l’intenzione di migliorare l’equilibrio vita lavoro dei dipendenti, abbattere i costi necessari agli spostamenti delle risorse umane da casa a lavoro e poter utilizzare le risorse in maniera più flessibile, senza necessità di grandi strutture per convogliarle tutte assieme nella stessa location.

Note negative per il datore di lavoro: una > difficoltà di gestione nello scambio di dati da remoto con l’amministrazione centrale e > costi legati all’allestimento delle postazioni di telelavoro sia dal punto di vista degli strumenti tecnologici necessari per comunicare con l’amministrazione che dal punto di vista della sicurezza sul lavoro.

Nota negativa per il dipendente: si perde completamente la connotazione sociale del lavoro, il lavoratore può sentirsi isolato dalla struttura e dai colleghi, sentimento che si è fatto sentire sempre più pesantemente infatti tra una grande percentuale di coloro che hanno sperimentato il lavoro da casa durante questa pandemia, soprattutto per coloro che non sono attualmente ancora tornati in presenza.

Ma allora, lo smart working cos’è? Traduzione del termine italiano “lavoro agile”, esso ha in comune con il telelavoro il fatto che il lavoratore non è fisicamente in azienda. La differenza che rende questa metodologia migliore della precedente è data dal fatto che qui non vi sono ne vincoli di spazio ne di orario.  E’ il lavoratore a scegliere dove e quando lavorare, ed è sempre il lavoratore solitamente a scegliere questa forma di lavoro in maniera volontaria la quale sarà, solitamente, alternata alla normale modalità lavorativa in presenza.

Per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro la responsabilità diventa mutua: da una parte il datore di lavoro deve sempre garantire la salute e la sicurezza del lavoratore in smartworking, il quale però dovrà collaborare ed attuare le misure di prevenzione predisposte dall’azienda.

Chiudo parlandovi di una recentissima risposta dell’Agenzia delle entrate proprio su questo tema. La domanda era: Le giornate lavorate in smart working a causa del covid, contano come giornate di lavoro dall’estero se il dipendente ha svolto le stesse mansioni ma è stato costretto a lavorare dall’Italia?

L’agenzia ha stabilito che L’emergenza non comporta modifiche interpretative della normativa sull’utilizzo delle retribuzioni convenzionali per il lavoro estero secondo la quale a determinare la tassazione del lavoro dipendente è la presenza fisica del lavoratore nello Stato, mentre i giorni non lavorativi si conteggiano nello stato in cui si presta l’attività lavorativa in via prevalente.

Il reddito di lavoro dipendente, per esser soggetto alla retribuzione convenzionale sui lavoratori esteri fissata dal decreto del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, deve rispettare i seguenti requisiti:

  • l’attività lavorativa deve essere svolta all’estero in maniera continuativa;
  • tale attività deve costituire l’oggetto esclusivo del rapporto di lavoro e, pertanto, l’esecuzione della prestazione lavorativa deve essere svolta integralmente all’estero;
  • il lavoratore, nell’arco di dodici mesi, deve soggiornare nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni.

E’ prevista inoltre la possibilità di frazionare tali somme di retribuzione convenzionale per adeguarle alla durata effettiva del periodo di lavoro.

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